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domenica 27 aprile 2014

Consapevolezza: l'infinito dentro di te

È bello credere si possa diventare noi stessi conoscendo la nostra personalità e quella delle persone che ci circondano.

Ma l'idea di avere sempre innestata la marcia dell'autoconsapevolezza e dell'introspezione verso gli altri qualche dubbio lo suscita.

Il tema è antico quanto la nostra cultura, a partire dal conosci te stesso delfico.

Che cosa significa questa frase?

Una sfilza di cose:
  • conosci la tua personalità
  • sii consapevole di dove ti trovi
  • sappi a che punto della vita sei
  • sii la tua voce-guida
  • fidati del tuo intuito
  • esaminati in maniera obiettiva
Potrei continuare, ma già da questo piccolo elenco si vede come certe traduzioni e interpretazioni del famoso monito greco siano addirittura contraddittorie.

Sopratutto, il modo in cui ci guardiamo ha anche una forte valenza sociale.

A un estremo, l'essere sé stessi viene frettolosamente identificato con l'essere liberi, disinibiti, anticonformisti.

Chissà perché però alcune persone che definiremmo tali suscitano la nostra ammirazione, altre invece ci appaiono come degli idioti.

Eppure, entrambi i tipi sembrano avere la stessa spocchia, e se il risultato è così diverso, c'è molto altro da considerare.

Autoconsapevolezza è una parola buona, autocoscienza lo è già meno, perché ci dà l'idea di qualcuno che pensa e controlla ossessivamente ogni momento del suo stare al mondo.

Essere centrati su di sé è un bel modo per definirsi, guardarsi l'ombelico lo è un po' meno, pur essendo quello il nostro centro fisico.

Dunque, non si tratta di stabilire se guardarsi dentro sia una cosa da fare di più o di meno, ma di indagare se farlo o non farlo, quando farlo e quando evitarlo, quando è bene addentrarsi nelle nostre profondità e quando è meglio fare un passo al di là di noi stessi per guardarci con più distacco.

Accorgersi di non sapere chi siamo è tremendo.

Riuscire a ritrovare il proprio sé è illuminante.

Scoprire che aver trovato il proprio sé era un'illusione e che forse l'intera ricerca va messa in discussione è sconcertante.

Che cos'è che realmente troviamo in noi quando ci cerchiamo?

L'anima?

Un pilota che ci comanda dall'interno, come facevano gli eroi dei cartoni giapponesi con il loro grossi robot?

E se fosse così, come fa a muoverci, a guidarci?

E soprattutto, non ha anche lui, al suo interno, miniaturizzato, un altro pilota che lo guida nel guidarci?

Allora siamo come la matrioska?

E quale parte di noi si fa questa domanda?

Qual è il che sta al di là di noi che ci interroghiamo?

Come cercare di afferrare la proprio mano con la stessa mano.

Certo, dopo questa implosione in noi stessi, potremmo pensare che non ci sia un sé individuale, ma che siamo tutti parte di un sé che ci circonda, universale, cosmico, come un dio.

Però poi la domanda torna, è la stessa, anche se appare diversa: chi lo controlla questo intorno a noi, questo cosmo animato, questo dio?

La nostra evoluzione può aiutarci a capire il mistero.

Siamo esseri viventi molto evoluti, più di ogni altro.

E la nostra evoluzione ci distingue dagli altri esseri proprio per questa capacità o maledizione di interrogarci su noi stessi.

Non sembra che gli altri esseri lo facciano: l'insetto vola senza chiedersi perché e senza cercare un sé al di là del suo volare.

L'autoconsapevolezza e l'introspezione sono capacità emergenti dell'essere umano.

E per fortuna non sono sempre attive.

Le nostre funzioni vitali, il respiro, ma anche alcune attività non naturali, come guardare la tv o ascoltare la musica, non dipendono dalla consapevolezza.

Se però prendiamo coscienza di cose simili, il pensiero che si forma nella nostra mente ha la struttura di una frase con la prima persona singolare: io.

Il linguaggio umana marca la vera differenza con tutti gli altri esseri viventi.

Siamo creature dotate di vocabolario, possiamo descrivere a parole qualsiasi complicata immagine che appaia ai nostri occhi o che potrebbe apparire, pur non avendola mai vista.

A parole puoi far vivere il dinosauro che non hai mai visto, puoi tornare ai giorni della tua infanzia, puoi tirare a indovinare sulla tua giornata di domani.

Da un punto di vista fenomenologico, qualsiasi prodotto linguistico si equivale: immaginare il dinosauro, ricordare in nostri quattro anni, scommettere su come andrà domani sera la partita e parlare di noi stessi non sono realtà, ma costruzioni di realtà.

Consapevolezza e introspezione esistono perché esiste nell'essere umano il linguaggio, la capacità di costruire realtà.

In pratica, quando ci diciamo consapevoli e introspettivi non facciamo altro che raccontare storie su noi stessi.

Le storie che raccontiamo non sono tutte uguali, come se noi stessi fossimo personaggi differenti di trame differenti.

Ma tutte cominciano con quel pronome: io.

La vita terra terra
L'io terra terra è l'io che respira, dorme, nel quale scorre il sangue.

Un io che non si interroga, senza autoconsapevolezza, autoriflessione, introspezione.

Molto vicino alle altre creature viventi, puro processo biologico.

Lo chiamiamo istintivo, o intuitivo, come se vivesse col pilota automatico.

Non tutti i comportamenti terra terra sono innati: lo sono senz'altro il sonno, il curarsi una ferita, il respirare, il digerire, ma non lo sono il camminare, usare le posate, guardare la tv, e in generale imparare nuove attività.

Solo che anche i comportamenti appresi diventano una seconda natura, e sono attuati con la consapevolezza al minimo.

Quando siamo nell'io terra terra, ci perdiamo in ciò che facciamo, quasi ci dimentichiamo della nostra parte cosciente, pensante, consapevole.

Agiamo come una macchina con un input e un output.

Diventiamo un tutt'uno con i processi vitali.

Dall'io terra terra arriva forse il massimo dell'efficienza, ma i problemi cominciano quando alcuni comportamenti appresi, la seconda natura, ci danneggiano.

C'è gente che vive così da persona per bene, e gente che vivendo secondo gli stessi meccanismi si comporta da malfattore.

Mi presento...
Già dire a qualcuno mi presento, mi chiamo Tizio e faccio quel tal mestiere è qualcosa in più della vita terra terra.

Una sorta di consapevolezza basilare, la capacità di osservarsi mentre stiamo agendo e di tradurlo in frasi.

Faccio l'idraulico, sono sposato, sono un tifoso sfegatato, ho intenzione di...

Tutte formule dove anche il pronome io - sebbene in italiano non sia necessario - si erge a protagonista.

A questo stadio di consapevolezza, l'io si autopresenta, si autodescrive, si autospiega, con storie indimostrate su sé stesso, quasi sempre stimolate da una richiesta esterna.

Quando affrontiamo eventi che richiedono a questo nostro io di uscire un po' più allo scoperto, di alzarsi da quel terra terra, quando siamo confusi, messi alla prova, dubbiosi, meravigliati, ecco che ci diciamo ma io sono...

Una volta emerse, queste definizioni, spiegazioni, descrizioni, storie, si scrivono nella nostra memoria, e possono tornare utili come guida o aiuto nel prendere decisioni.

Quando ci sentiamo disorientati, torniamo a questo bagaglio di io sono per trovare la direzione, ricordare che cosa dobbiamo fare e perché, che cosa non facciamo solitamente e perché lo evitiamo.

Io non mangio pomodori, io non aspetto nessuno, io non mi sfogo all'improvviso, ci diciamo quello che ci serve per rimanere sul nostro binario.

L'io che si presenta e si racconta è utile per resistere quando l'ambiente circostante sembra pressarci.

Naturalmente, se sono una brava persona, dirmelo mi potrà aiutare a evitare cattive strade, mentre se sono un delinquente, potrei usare la stessa facoltà per resistere nella mia cattiva strada.

Spesso la determinazione è frutto di questo tipo di io, ma si può essere determinati a difendere i diritti civili così come si può esserlo a sterminare una popolazione.

L'io narrante
Nella nostra storia letteraria si dice sempre che la comparsa dell'io, con Petrarca, fu la grande svolta della poesia, perché l'autore non descrive solo poeticamente una realtà ma anche l'effetto che questa realtà ha su di sé, quando ci pensa e persino quando ne scrive.

Anche il nostro io possiede questa qualità autonarrativa, quando oltre a dire che io sono un idraulico posso aggiungere che mi piace fare l'idraulico, che ho sempre desiderato farlo, che fosse per me saboterei tutti gli impianti delle case che visito e così via.

A questo stadio di consapevolezza, la distanza tra noi e le nostre autodescrizioni aumenta, e questa maggiore distanza riduce la stessa credibilità di come ci raccontiamo.

Non è più importante se sia vero che non mangiamo pomodori o che non vogliamo aspettare nessuno, ma quanto sia utile pensarlo e dircelo in quel momento.

Quando accediamo al nostro io narrante comprendiamo che non stiamo solo riportando i fatti, ma che li stiamo interpretando.

La flessibilità della mente umana dipende direttamente da questo stadio di consapevolezza, che ci permette non solo di valutare il nostro atteggiamento verso un comportamento, ma anche di sceglierne un altro, perché nel contemplarlo cerchiamo di capire anche se ci piacerà, se ci gioverà.

L'io narrante è capace di instillare il dubbio, che è una buona cosa se la storia che ti racconti è che stai diventando ricco evadendo le tasse, e una cosa meno buona se ti raccontavi di essere un buon padre responsabile dei suoi figli e ora invece ti viene il dubbio di scappare ai Caraibi e aprire un chiringuito.

E il naufragar m'è dolce in questo mare
Per ogni storia, ogni descrizione, ogni presentazione, ce n'è un'altra che si può raccontare su chi sta parlando.

Così come puoi sempre immaginare te stesso che parla, puoi ancora immaginare di osservare il te stesso che ascolta l'altro te stesso che sta parlando, e così a ritroso, all'infinito.

Non c'è nessuna verità, per ogni interpretazione ce ne possono essere altre, e persino le interpretazioni si possono interpretare.

A questo stadio di consapevolezza puoi cadere nel più puro sconcerto, o metterti comodo rispetto alle incertezze della vita.

Ci stiamo poco, in questo stadio, perché è vertiginoso, abbiamo bisogno prevalentemente di quel binario, siamo pieni di cose da fare, il nostro stesso organismo le richiede.

La vecchia storia del millepiedi lo insegna: alla richiesta di riflettere su quale delle sue zampe si muovesse prima e quale dopo, il povero animale si trovò incapace di avanzare.

Dentro la matrioska
Smetti di pensare troppo, vivi! ci dice chi vuole vivere terra terra.

Segui i tuoi scopi, ci esorta la persona che si auto presenta.

Dubita di ogni cosa, ammonisce l'io narrante.

Se non puoi trovare la verità, smetti di cercarla, sentenzia l'io infinito.

E quante volte, nella nostra matrioska personale, sentiamo la nostra stessa voce camuffarsi ora nell'uno, ora negli altri.

Non si tratta di sceglierne uno, ma di diventare bravi a usarli, tutti e quattro.

Il primo io si cura coltivando buone abitudini ed estirpando le meno buone.

Il secondo io ci serve a raccontare storie non dimostrate, scegliendo quelle che ci permettono di crescere nella giusta direzione, e facendo tacere quelle che ci fanno colare a picco.

Il terzo io dovrà riesaminare le storie su di noi che non ci stanno dando risultati, avendo la saggezza di tralasciare quelle che stanno funzionando.

Il quarto io dovrà lasciare lo spazio al pensiero che non c'è nessuna verità definitiva su ciò che è buono e meno buono per te.

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