Che ogni nostro pensiero, desiderio, gesto, abbia delle ricadute nel futuro - immediato o più lontano - è fuori di dubbio.
Ma che noi prestiamo davvero attenzione al fatto che la responsabilità di queste ricadute è sempre nostra è tutto da vedere.
Forse l'unico momento in cui davvero proviamo una consapevolezza solida delle conseguenze future è quando agiamo sotto l'azione dell'istinto di sopravvivenza e della paura.
Decenni di studi sul comportamento umano non sono riusciti a fare piena luce sulla difficoltà dell'uomo nel far andare a braccetto istinto e razionalità.
Anzi, gli studiosi si sono addirittura spartiti le discipline, così l'economia applicata al comportamento si è costruita partendo dall'idea di un uomo completamente razionale, mentre la piscologia nasce ufficialmente quando quel signore austriaco disse che in realtà noi non sappiamo mai che cosa facciamo e perché lo facciamo.
Così tutti abbiamo vissuto l'esperienza di pensare rapidamente e agire di conseguenza - rapidamente al punto da non definirlo nemmeno un pensare - accanto all'altra esperienza, quella di - provare a - meditare passo dopo passo, con lentezza, a che cosa ci conviene di più.
In genere, con la prima modalità di pensiero assolviamo ai desideri istintivi, di pancia; con il lento deliberare invece allunghiamo la prospettiva e cerchiamo di prendere decisioni a lungo termine.
Sapere che esistono questi due processi, e cercare di farli interagire sembra essere il tema principale di tutti i libri e i manuali che oggi puoi trovare in vendita, quelli che ti invitano a smettere di, o quelli che ti spronano a prendere la tua vita e... ma a ben vedere si tratta di un'interazione ardua, così questi stessi manuali finiscono per propendere ora verso un sonoro vaffa alla razionalità per esaltare l'istinto e liberarsi - ma da che? - e ora per mettere paletti alle intuizioni e passarle in processi meccanici di elaborazione per pensare - come? - e vivere meglio.
Se è così difficile far andare veramente di pari passo istinto e razionalità, forse è perché ci sfugge qualcosa.
Così, proviamo un attimo a mettere ordine tra tutti gli elementi in gioco, per vedere se ci riesce almeno di capire perché è così complicato.
Sia quando usiamo l'istinto, sia quando preferiamo usare la razionalità, perseguiamo dei voleri, dei desideri.
Questo elemento, il volere, il desiderio, non è certo univoco, ma può essere costituito da una gratificazione immediata o dal raggiungimento di un risultato futuro.
È molto probabile che, nel tentare di raggiungere una gratificazione immediata si faccia uso dell'istinto, di un processo mentale rapido.
Altrettanto probabile che perseguire obiettivi a lungo termine avvenga tramite un uso della razionalità più lento.
Abbiamo quindi due velocità di processo mentale, ma entrambe mosse dal desiderio.
C'è però una dimensione da non sottovalutare: come ci sentiamo durante il processo mentale in atto?
Quali sono le nostre emozioni e i nostri sentimenti nel mentre agisce l'istinto o la razionalità per raggiungere il nostro volere?
C'è la possibilità che emozioni e sentimenti facciano sorgere altri desideri, desideri su come vogliamo raggiungere i nostri voleri.
Usare l'istinto per una gratificazione immediata vuol dire contemporaneamente che in quel momento non vogliamo stare a pensare molto, preferiamo anche una soluzione rapida del processo.
Allo stesso modo, quando usiamo la razionalità è perché non solo vogliamo quel desiderio a lungo termine, ma preferiamo anche una soluzione migliore, anche se ci costerà più tempo per elaborarla.
Da una parte c'è la velocità o la lentezza, dall'altra il desiderio da raggiungere e il desiderio di raggiungerlo in un certo modo.
A rendere ancora più intricato il meccanismo, è la nostra - presunta - autorevolezza.
Mettiamo pure il caso di desiderare qualcosa a lungo termine, e che questo ci porti ad usare la razionalità.
Nello stesso tempo, pensiamo anche ottimo, così sicuramente arriverò a una soluzione migliore di quella che troverei affrettandomi.
Ma il sentimento di voler prendere una buona decisione si può basare solo sulla memoria soggettiva di averne già prese in passato; a questo sentimento l'uomo, come ci raccontano sin dall'antichità i greci, spesso ci arriva con arroganza, cioè credendo di aver preso buone decisioni.
Quanto poi alla mera capacità di applicare la ragionevolezza, anche qui il rischio è forte, ed è quello di autoconvincerci con la retorica e scambiare questa per un vero ragionamento logico.
Il fatto che questo complesso meccanismo vada in tilt è dimostrato da un'esperienza abbastanza comune, quella di sentire che dovremmo fermarci e applicare la razionalità, seguita da quella di convincerci che non c'è bisogno di rallentare o che non è giusto farlo per non frenare il nostro vero istinto.
In questo caso arriviamo a usare il nostro pensare lento per sfornare formule retoriche che si autospacciano per ragionamento al solo scopo di convincerci o darci coraggio.
Si tratta di quella che chiamiamo comunemente razionalizzazione a posteriori.
Se è difficilissimo non essere comunque mossi da desideri e interessi personali, è molto più facile scambiare la razionalizzazione per l'essere razionali, come se fossero la stessa cosa.
La razionalizzazione è in realtà un processo mentale veloce che si camuffa da pensiero lento e soppesato.
Ed è lo stesso processo con il quale, quando ci confrontiamo verbalmente con gli altri, cerchiamo di apparire più razionali e disinteressati di quanto realmente siamo, dicendo cose come per me conta la verità (ma in realtà conta quella che ci fa comodo), o l'importante è partecipare (ma speriamo che vinca chi preferiamo noi).
La verità, in questo caso, è un lupo affamato che ci dà la caccia, e noi vogliamo mostrarci pronti all'autosacrificio mentre cerchiamo di depistarlo.
In tutta la sua esistenza, l'essere umano, nel tentare di avvicinare istinto e razionalità, non ha saputo fare granché, se non inventare la razionalizzazione per spiegare ciò che lui stesso non è in grado di spiegare.
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