Pagine

sabato 11 ottobre 2014

Educare per uscire dalla violenza

L'episodio delle sevizie inferte con un compressore a un ragazzo in provincia di Napoli è terrificante, ma non voglio farmi paralizzare dall'orrore - che pure sento - perché è in questi casi che bisogna fare attenzione alle derive emotive della cronaca.

Simili storie rischiano di far puntare l'attenzione sulla sicurezza invece che sulla civiltà, e quando si ragiona a caldo su che cosa si può fare poi si finisce per pensare in maniera poliziesca all'aumento del controllo al posto di sforzarsi di immaginare come far crescere il livello culturale della convivenza civile.

Le relazioni sociali comunque sono spesso caratterizzate da transazioni crudeli, come prendere in giro, emarginare, sopraffare, spettegolare, fare gruppo contro le minoranze.

Nel mondo dei giovani, poi, queste disdicevoli pratiche fanno ancor più scalpore, sia perché il minore, l'adolescente o comunque il ragazzo che le subisce è palesemente più debole, sia perché questi meccanismi non avvengono soltanto nelle interazioni dal vivo, ma anche sui social network e persino nella modernissima comunicazione via cellulare, soprattutto con le nuove applicazioni per i messaggi.

Quando il più giovane soggiace alla crudeltà non è in pericolo solo il suo benessere e la tranquillità sociale, ma è a rischio anche la capacità di chi tutela ed educa i giovani di puntare all'obiettivo della loro crescita come cittadini, come membri di una cultura, col pericolo invece di appiattirsi sulla pura vigilanza e sul controllo delle condizioni di sicurezza.

Stigmatizzare l'episodio napoletano in quanto napoletano, quindi inserito in una cornice di forte disagio, rischia di deresponsabilizzare gli adulti, ai quali tocca governare il processo di crescita, di formazione e di sviluppo del contesto sociale.

Il pericolo è considerare statisticamente più probabile che episodi del genere accadano in certe cornici socio-culturali piuttosto che in altre, perché ciò vuol dire trasformare in vittime consacrate categorie sociali che invece non sono vittime in sé, ma espressione di un altro che i malati di bullismo e sopraffazione credono di dover attaccare.

Nella loro atroce sofferenza, i bulli, e coloro che impongono torture, non fanno che gridare al mondo le proprie ferite lancinanti infliggendole agli altri, perché inconsciamente vogliono farle vedere al mondo circostante.

Scelgono un altro che rechi in sé la stigma dell'inferiore, dell'escluso, del buono a nulla, dell'inadeguato, e questo non è che la proiezione di come loro si sono sentiti per primi.

Se noi, come società, non comprendiamo che il benessere del singolo garantisce il benessere di altri singoli in futuro, e ci preoccupiamo solo di arrestare, immobilizzare, rendere innocui o relegare nell'oblio coloro che mettono a rischio la convivenza civile, non faremo che alimentare implicitamente il fenomeno.

Mi tocca molto da vicino quanto accaduto, con le sue implicazioni, perché mi sento responsabile, in quanto educatore, di trasmettere ai più giovani - per i quali e con i quali lavoro -che cosa vuol dire veramente difendere la propria dignità e imparare a rispettare quella degli altri.

Dobbiamo insegnare ai più giovani che:
  • subire un maltrattamento non è mai una questione privata, da tenere nascosta per timore di apparire inadeguati, incapaci di badare a sé, o spioni; l'isolamento sociale rafforza chi agisce i soprusi, e trovare qualcuno che sappia aiutarci è un'abilità, non una vergogna
  • essere sottoposti a vessazioni non è un fatto personale, che si è meritato o è scritto nel destino, né è segno del nostro valore nella società; la responsabilità di un sopruso è sempre di chi la commette, e solo assegnandola correttamente si può cominciare a prendersi cura di sé nel modo migliore
  • sottostare a ingiurie e prepotenze non vuol dire averle provocate e quindi doversi anche punire per questo; proprio nel massimo della sopraffazione, bisogna trattarsi con il massimo della cura e del rispetto di sé
  • piegarsi agli oltraggi non vuol dire essere impotenti e sentirsi senza speranza; il potere sta nell'avere più scelte, e chi subisce vessazioni può scegliere tra molteplici figure quelle che potranno aiutarlo al meglio
  • aver subito una violenza non è una condanna definitiva all'infelicità; contro la generalizzazione, si può allargare la visuale, mostrare che le amicizie, gli affetti, la stima e la comprensione sono ancora lì, raggiungibili, se solo si punta in altra direzione, verso altre persone

Nessun commento:

Posta un commento