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domenica 21 aprile 2013

Autismo: cura o rispetto?


 Quali prospettive possiamo offrire per chi riceve una diagnosi di disturbi dello spettro autistico e per il loro familiari?

Anche se ci piace giocare con le parole, e da handicap siamo passati per disabilità fino ad arrivare al diversamente abile, di fatto non è cambiato granché, anche se proprio gli autistici sono gli unici a rientrare perfettamente in quest'ultima definizione.

Poiché l'autismo, più di ogni altra manifestazione considerata patologica, sfugge al meccanismo classico della medicina, ossia trovare le cause per intervenire sugli effetti, la società rivela tutta la sua inadeguatezza rispetto al fenomeno.

Molti programmi per l'autismo oggi contengono un non detto deleterio: cerchiamo di cambiare la sua condizione e di renderlo sempre più somigliante a una persona con funzionamento tipico, e già questa perifrasi la dice lunga.


L'idea di collocare l'autistico su un continuum che va dall'anormalità alla norma genera mostri come la coercizione se non addirittura l'ostilità.

In altri casi, non migliori di questi, si ricade nel più becero comportamentismo, trattando il soggetto come un animale in un esperimento, mostrandogli la ricompensa affinché risponda come noi vogliamo agli stimoli.

Probabilmente, all'interno di un'istituzione scolastica, una rete di scambi basati su stimolo-risposta potrebbe addirittura rendere gestibile e prevedibile la convivenza tra gli autistici e gli altri, e dare l'impressione che il soggetto sia più accondiscendente, ma in realtà senza far nascere nessun contesto adatto allo sviluppo delle sue abilità e dei suoi interessi.

Si può forzare l'ingresso degli autistici nel nostro mondo ed essi mostrano anche di sapersi adattare a volte senza difficoltà eccessive, ma resta sempre un mondo a loro estraneo.

Ciò che sto verificando nel mio lavoro con l'autismo, invece, è che l'autodeterminazione del soggetto ottiene gli stessi risultati dell'approccio comportamentista senza ricorrere a ricompense.

Il soggetto, lasciato libero di scegliere a che cosa dedicarsi nelle sue ore, mostra una varietà di interessi e una quantità di scambi relazionali in uscita - come si dice in gergo, cioè che partono dal soggetto stesso - di grandissima qualità e intensità, e finisce per fare molte più esperienze di quante sia possibile approntare per lui da parte di noi normali.

Del resto, le strutture sanitarie lavorano con gli autistici applicando lo stesso principio: i trattamenti psicomotori e gli spazi per l'autismo condividono l'idea che il soggetto è libero di vivere quello spazio e quel momento come sente, e che sono i professionisti in campo a doversi adattare a lui.

Un approccio basato sull'autodeterminazione conduce felicemente alla dignità e al rispetto.

Piuttosto che forzare l'autistico a conformarsi al mondo del funzionamento tipico, bisognerebbe cercare di comprendere il suo modo di percepire il mondo, il flusso di stimoli, immagini, sensazioni, e osservare attentamente e favorire l'emergere di tutte le tendenze costruttive.

Spesso ciò non accade perché le istituzioni, ossia la scuola in primis, sono miopi.

Si preoccupano di che cosa fargli fare oggi, e così si inventano ora per ora qualche attività che quasi sempre l'autistico rifiuta o reinterpreta a modo suo.

Chi lavora con lui, convinto che fargli fare quella cosa programmata sia per il suo bene, insiste, e spesso l'autistico reagisce difendendo la sua libertà personale.

Come sanno bene molti familiari, gli autistici non si fanno scrupoli a menare chi viene visto da loro come oppositore.

Il fallimento costante di questo tipo di interventi genera grande frustrazione tra gli insegnanti e gli educatori che dovrebbero occuparsene, con tutto ciò che questo sentimento comporta.

Se invece si desse loro il tempo di dimostrare quanto ricchi e creativi possono essere, tutti resterebbero stupiti di fronte alla vitalità e all'inventiva di queste persone.

La valutazione degli interventi non può essere fatta a fine giornata, come un insegnante spesso fa per le sue attività canoniche.

Si provi a lasciare l'autistico libero di scegliere a che cosa dedicarsi per una settimana, accompagnandolo e fornendogli tutto il supporto necessario per realizzare ciò che ha in mente.

Si prenda nota di tutto ciò che fa e non fa - perché a volte riposano anche - di quando comincia e quando finisce un'attività, di quante volte la comunicazione parte dal soggetto stesso, soprattutto di quanto lucido e concentrato apparirà mentre prende materiale, lo organizza, chiede al normale di procurargli ciò che in qualche modo ha imparato a non prendere da solo, e si ascolti attentamente i suoni con cui esprime il suo piacere, la sua riflessione o anche la sua contrarietà mentre gioca, costruisce, assembla, trasforma, crea, illustra, colora, sporca, distrugge, e pensa.

Alla fine della settimana, si provi a calcolare quanti di questi eventi sono accaduti senza che la persona con funzionamento tipico abbia dovuto preparargli nulla.

Si provi a calcolare anche quanta soddisfazione, quanta serenità, quanta piacevolezza si è respirata in quella settimana, per l'autistico e per chi ci ha lavorato accanto.

La miopia delle istituzioni, oltre che sintomo di inadeguatezza professionale, è anche segno di irrazionalità.

Perché l'autistico domani sarà ancora autistico.

Non è l'influenza che prima o poi guarisce.

Perché approcciare l'autismo come qualcosa da curare?

E curare che cosa, poi?

Qual è il nostro trattamento?

Portarlo a somigliare alla persona con funzionamento tipico e adattarsi al mondo a lui estraneo?

Un discorso che eticamente riecheggia le stesse problematiche dell'integrazione etnica, quando qualcuno si chiede se un immigrato dovrebbe adattarsi alle nostre regole e costumi o conservare le proprie usanze.

Ne avevo parlato già qui, ricorrendo al paragone con gli extraterrestri.

È più produttivo, per gli autistici e per noi, considerare l'autismo una malattia da curare o una diversità da rispettare?

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