Pagine

venerdì 12 marzo 2010

Sano o malato di mente: quando il cinema è meglio della psicodiagnostica



Tutti pazzi per il cinema
Shutter Island è il nuovo film di Martin Scorsese sul tema della differenza tra sanità e pazzia e sulla responsabilità di scegliere da che parte stare (non dico altro, andatelo a vedere).

Il cinema ha usato spesso questi temi ma raramente in modo da far sentire allo spettatore il loro giusto "peso".

Infatti, alla responsabilità del protagonista, interpretato da Leonardo Di Caprio, nella scelta del suo destino si accompagna la responsabilità dello spettatore nel decidere che film ha visto, perché la trama è connotata da una ambivalenza che Scorsese volutamente non risolve, così a noi che guardiamo tocca prendere posizione.

Ma il film è interessante perché ruota intorno a una delle questioni più spinose della storia della psichiatria: il labeling, o etichettamento.


Leggere attentamente l'etichetta
Durante il suo peregrinare sull'isola, infatti, il protagonista di Shutter Island comprende che la pazzia è quella cosa che una volta appiccicata addosso a qualcuno non si stacca più, e qualsiasi comportamento la persona assuma verrà sempre letto come manifestazione folle.

Questo è un limite intrinseco della psicodiagnostica e un tema di fronte al quale chi studia la mente non può esimersi dal prendere posizione.

Tanto per restare in ambito cinematografico, molti ricorderanno il bellissimo A beautiful mind, di Ron Howard con Russell Crowe che interpreta John Nash, il matematico premio Nobel per la teoria dei giochi, al quale venne diagnosticata una forma di schizofrenia.

In quel caso, per mezzo film lo spettatore partecipa e si immedesima nel protagonista, poi arriva qualcuno a etichettare come pazzo John Nash, e da quel momento lo spettatore assume gli occhi dei medici, dei parenti e degli amici, insomma, degli altri, provando su di sé la potenza del labeling: fino a qualche istante prima chi guarda il film è convinto delle stesse cose di Nash, un attimo dopo tutto ciò che lui vede, sente, tocca, semplicemente non esiste nella realtà (nessuno dica che gli ho rovinato la sorpresa: colpevole chi fino a oggi non ha ancora visto A beautiful mind!).

I finti matti e i falsi sani
La forza del labeling fu ampiamente dimostrata da un esperimento dei primi anni settanta raccontato da David L. Rosenhan in Essere sani in posti insani che in Italia si trova in La realtà inventata, a cura di Paul Watzlawick (Milano, Feltrinelli, 1988).

In breve, otto falsi pazienti si presentano in strutture ospedaliere lamentando di sentire delle voci e descrivendo, per il resto, la loro vita nel modo più normale possibile, vengono ricoverati, smettono di dichiarare sintomi e di fingere ma non vengono riconosciuti come "sani", anzi vengono dimessi con una diagnosi di schizofrenia in remissione.

Sviste del genere non sono rare: Giorgio Nardone racconta che da Grosseto una paziente psichiatrica doveva essere trasferita al sud e quando gli infermieri entrarono nella stanza a prelevare la donna, questa si ribellò dicendo di non essere pazza, cosa che convinse gli infermieri della sua follia, finché i carabinieri non intervennero a chiarire che la donna prelevata era una parente della degente (Manuale di sopravvivenza per psico-pazienti, Firenze, Ponte alle Grazie, 1994).

Insomma, la rabbia del vedersi tacciati di pazzia viene vista come prova della pazzia, ma anche se uno restasse calmo in attesa di sviluppi ciò potrebbe essere visto con sospetto, gli altri potrebbero pensare che il soggetto stia tramando chissà cosa.

Quindi sempre pazzo resta.

Mi diverte molto il fatto che anche i sani a volte non vedano la realtà...

ma cosa glielo impedisce?

It's the contest, stupid!
La diagnosi è fatta sulla base di una corrispondenza tra una lista di sintomi - raccolti nei manuali di psicodiagnostica come il DSM o l'ICD - e l'osservazione o l'ascolto del paziente.

Ma perché la diagnosi possa distinguere tra sani e malati di mente dovrebbe servirsi di parametri adatti a un'unica categoria - gli esseri umani - e non a parametri come i sintomi che di fatto vengono usati solo per coloro che sono implicitamente sospettati di soffrire un disturbo mentale.

Le due categorie, sani e malati, sono a priori, e le proprietà che definiscono i sani e i malati sono diverse, da una parte tutto ciò che fanno i cittadini cosiddetti normali e dall'altra tutto ciò di cui dovrebbero soffrire i cosiddetti malati.

A nessuno viene in mente di chiedere a un presunto malato di mente la sua soddisfazione da un punto di vista lavorativo, cosa che invece si ritiene tra i parametri più importanti di un cittadino normale.

E viceversa: di solito, incontrando i colleghi al mattino al lavoro, non diciamo loro "ehi, come va con le tue allucinazioni?".

Sano e malato di mente così diventano due contesti che determinano il significato di tutte le proprietà che invece dovrebbero servire a definire questi stessi aggettivi.

Un pasticcio logico dovuto alla autoreferenzialità di questi due contesti.

L'influenza del contesto è cruciale: esso è come una domanda di fondo che ci facciamo su una porzione di realtà.

La domanda di fondo dei manuali di psicodiagnostica non è "è sano o malato?" ma è "di quali disturbi soffre il malato?", altrimenti come mai gli otto finti pazienti non sono stati dimessi con un diagnosi di salute mentale?

Il termine malato è già presente nella domanda di fondo, quindi la divisione tra sanità e pazzia è già data a monte e i manuali, così bravi a trovare i segni della follia, tra tutti i loro assi non contengono quello della salute.

Per il mese di maggio del 2013 l'American Psychiatric Association preannuncia la pubblicazione della quinta edizione aggiornata del DSM.

Speriamo abbiano visto il film di Scorsese e che ci aiutino a togliere i sigilli a tutte le Shutter Island che abbiamo nella testa.

4 commenti:

  1. Normale o pazzo ? effettivamente sembra che a tutti sia particolarmente chiaro il confine.
    Ma siamo sicuri di sapere esattamente qual'è il confine ? esiste realmente un confine così marcato ? oppure questo "confine" delle volte è solo un "illusione" un escursione fuori dalla percentuale, perchè spesso è la maggioranza a decidere i limiti del "normale".
    Guarda questo :-) se da domani ..... 99 persone su cento affermano di vedere solo due punti trattino e parentesi tonda .... stai calmo, non agitarti, fai un bel respiro profondo, e corri a prendere le pillole !! siamo due pazzi

    RispondiElimina
  2. Molto carino, Marco.
    L'esempio dello smile è anche pertinente: la differenza tra chi vede solo i segni grafici e chi coglie la struttura globale è proprio la stessa che c'è tra chi vede patologie e chi no.
    Sulla maggioranza e i suoi effetti scriverò qualcosa a partire dagli esperimenti di Solomon Asch. A presto

    RispondiElimina
  3. Tutto vero e sacrosanto. Chiediamoci perchè gli psichiatri continuino a somministrare "farmaci" quali antidepressivi, ansiolitici, psicofarmaci, ecc. in maniera indiscriminata, senza tener conto degli studi che dimostrano le conseguenze terribili sull'organismo dei pazienti, nonchè sul fatto che questi farmaci inducono, anzichè lenire, psicosi di vario genere... come a dire: se non sei matto, ci diventi comunque.
    Conosco un ragazzo, che è periodicamente sottoposto a TSO, solo perchè ha delle allucinazioni. E' un ragazzo mite, assolutamente innocuo, sensibile e intelligente. Forse ha una percezione in più. O forse è solo una percezione diversa dalla "normalità". Insomma, oggi Giovanna D'ARco sarebbe costretta, mani e piedi legati, ad un letto d'ospedale, solo perchè sente voci che gli altri non sentono. Per fortuna, ai tempi di Giovanna D'Arco le multinazionali farmaceutiche non esistevano ancora.

    RispondiElimina
  4. Solo perché all'epoca di multinazionale ce n'era una sola: la chiesa...

    RispondiElimina