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venerdì 19 marzo 2010

Placebo ed etica: scomode domande per una scomoda questione


Il placebo funziona veramente?
Faccio questa domanda in modo pretestuoso: non sono certo io che devo dimostrare l'efficacia dell'effetto placebo nelle sperimentazioni che, attualmente, si assesta intorno al 30-35 % dei casi.

Faccio un'altra riflessione a partire dal principio omnis determinatio est negatio, reso celebre da Spinoza ma che ha radici ben più remote.

Che il placebo funzioni, dopo tutto, ci può stare.

Ma nessuno riflette sul fatto che in tutti i casi in cui esso funziona è la medicina tradizionale a non funzionare.

Certo, dimostrare che i farmaci veri avrebbero danneggiato i soggetti ai quali è stata data la pillola zuccherina non è facile.

Ma qualche indizio ci viene da un altro effetto, complementare al placebo, chiamato appunto nocebo, quando il finto farmaco danneggia il paziente in genere a causa di un cattivo rapporto tra le due parti in causa o per aspettative negative.

I due effetti, se integrati, ci dicono qualcosa che è più importante della loro somma: il rapporto medico-paziente si gioca sul piano della comunicazione e dell'apprendimento, e come tutte le questioni legate a questi due fattori pone problemi etici.


Ma è vero che non si può dire a un paziente che si tratta di un placebo?
Ni.

Per rispondere a questa domanda si deve anche tener conto del tempo in cui avviene il processo terapeutico.

L'idea di partenza è che a dei pazienti, convinti di prendere medicine sulle quali hanno aspettative positive, si somministrano sostanze innocue, dopodiché gli stessi pazienti migliorano.

Alcuni pensano ci sia in ballo un problema etico deontologico: poiché non bisogna mentire al paziente, non si può fingere di somministrargli un farmaco.

Altri dicono: sì, ma se noi gli diciamo che in realtà non è un farmaco, l'effetto basato sull'aspettativa potrebbe venire a mancare, quindi per mettere la salute del paziente al primo posto dobbiamo mentire.

Questa seconda posizione risponde a un'etica consequenzialista, nella quale i risultati sono l'unica cosa che conta.

A questo punto entra in ballo il tempo, ossia cosa succede dopo la somministrazione del placebo.

Perché è importante il tempo?
Perché nella medicina tradizionale il processo di ricorso al farmaco, al medico, a qualcuno o a qualcosa in grado di aiutarci è un processo riproducibile.

Quindi, l'accidente che porta un paziente a farsi curare (magari con un placebo) potrebbe ripetersi oppure potrebbe capitargliene un altro.

Dalla seconda volta in poi cosa si fa? Glielo si dice che era zucchero (o carezze, o iniezioni di stima, o affetto ecc.) o lo si lascia credere ancora a Babbo Natale?

Per prima cosa è il terapeuta stesso a dover scegliere.

Il terapeuta (nel senso ampio del termine, perché qua non stiamo solo parlando di medicine, ma anche di altri "farmaci" non chimici, come le parole in psicoterapia, i rapporti umani, le vacanze, il sesso, le sigarette, i libri, i deliri, insomma, tutte quelle "cose" alle quali le persone attribuiscono un effetto sul proprio organismo, sul proprio umore, o su entrambi) che abbia assistito a questa "magia" a cosa attribuirà il risultato positivo del placebo?

Non rivelando nulla al paziente, egli confermerà una realtà, un'idea del mondo e della vita in cui si fa affidamento a risorse esterne.

E ci sono un sacco di persone che ricorrono a qualcosa al di fuori di sé per cambiare qualcosa al loro interno.

Non c'è assolutamente nulla di sbagliato, in questo, finché ciò non porta a un rischio di deresponsabilizzazione della persona che finisce per affidarsi completamente ad altro e ad altri.

Ma ci sono un sacco di "guaritori" che credono fortemente a un mondo basato su questo principio.

Alcuni ci credono senza esserne pienamente consapevoli.

Altri, che ne hanno capito le implicazioni, ci costruiscono sopra un business (provate a digitare su Google "guaritore arrestato"...).

Questo però non ci dice nulla sul paziente, cioè se egli sia una persona che crede nella potenza delle risorse esterne a sé.

Perché ci sono anche persone che invece credono in risorse interne, e allora l'esperienza del placebo (sempre in senso non strettamente farmacologico) potrebbe anzi alimentare la loro credenza in sé stessi e nelle proprie qualità personali.

Ciò porterebbe all'autonomia del paziente (trasformandolo in un ex), che imparerebbe a usare le aspettative per innescare in sé circoli virtuosi di benessere.

Ci sono di certo un mare di casi intermedi, di persone che per principio rifiutano il farmaco ma usano allo stesso modo pratiche orientali di vario genere che non sto qui ad elencare, altre che frequentano corsi, altre ancora che sperimentano tutti i libri che promettono finalmente di "cambiare" anche se spesso cambiano solo i libri che leggono e loro mai.

Ma è vero che il placebo è incompatibile con l'etica?
Dipende dall'etica.

Come abbiamo visto, per l'etica deontologica, se si somministra correttamente non è etico, se lo si somministra senza mentire non è più efficace.

Per i consequenzialisti invece si tratterebbe di mentire a fin di bene quindi sarebbe lecito.

Ma entrambe le posizioni non si pongono minimamente il problema dello sviluppo personale del paziente.

L'etica interessata allo sviluppo della persona, delle sue qualità, è l'etica classica, quella della virtù secondo Aristotele (alla voce Etica in Wikipedia la trovi nella sezione 6.1).

Nell'etica della virtù il bene coincide con l'eudaimonìa, che non è tanto la felicità in sé, ma la sensazione di essere una persona dotata di qualità.

In quest'ottica, il placebo può essere un'esperienza di scoperta di virtù nascoste dentro di noi che può farci cambiare prospettiva, smettere di affidarci completamente a risorse esterne e iniziare a valorizzare ciò che siamo e che abbiamo dentro.

Se avviene questo cambiamento di prospettiva, se il paziente comprende quanto è importante interessarsi a sé, parlare con sé, essere consapevole di ciò che ha dentro di sé, potrebbe comprendere come è avvenuto davvero il "miracolo" del placebo e pian piano riprodurlo.

Imparerebbe a non scoraggiarsi, a non credere subito a pillole miracolose, ad accettare che ci sono periodi positivi e altri meno e saper aspettare il flusso e riflusso degli eventi, a non smettere di rispettarsi facendo tutto ciò che è in suo potere per aiutarsi.

In pratica ho descritto quattro virtù, le prime che mi sono venute in mente, fortezza, prudenza, giustizia e temperanza (quelle che il Cristianesimo rubò ai classici).

Ed è questa l'etica nella quale inquadrare il placebo e soprattutto cosa questo fenomeno può insegnarci: ci sono virtù nell'animo umano che è doveroso (etico!) alimentare tutte le volte che ne abbiamo l'opportunità.

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