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venerdì 4 dicembre 2009

Attacchi di panico: una paura che non bussa alla porta


Mi piacerebbe iniziare con una definizione dell'attacco di panico ma la quantità di informazioni su questo "fenomeno" è tanto vasta da sentirmi ridicolo al solo pensiero di aggiungermi al "coro", perciò mi limito per ora al solo link informativo.

L'affermazione che più mi colpisce, nel mare di discorsi su questo disagio, è quella sulla sua natura di male dei nostri tempi.

Intanto, la stessa cosa si sente dire anche per la depressione, quindi viene da chiedersi quanti mali abbia il nostro tempo.

Inoltre, se davvero fosse un male dei nostri tempi allora tutti i tempi hanno avuto i loro mali quindi il mondo procede in modo del tutto naturale, un tempo c'era la peste...

Chi vuol esser più preciso dice che gli attacchi di panico hanno rilevanza statistica notevole perciò meritano tutta l'attenzione.

Purtroppo non esistono statistiche per i secoli passati ed è impossibile fare confronti per determinare l'esatta rilevanza statistica: la statistica, come metodo d'indagine, non esisteva.

Ad essere aumentati sono i rilevatori statistici, medici e ricercatori: non vorrei che all'attacco di panico tocchi la sorte della criminalità, in calo se paragonata a secoli passati ma che - amplificata dal maggior numero di fonti di informazione - sembra in aumento.

La psicopatologia odierna sta affinando i suoi criteri e suggerisce una differenza: l'attacco di panico è l'episodio connotato da certi sintomi, il disturbo da panico è la ripetizione di numerosi attacchi con una certa periodicità in un certo lasso di tempo.

Questa "creazione" del disturbo da panico è una vera e propria "magia" resa possibile dalla natura instabile del fare diagnosi.

Nel caso specifico:
  • la fondatezza del disturbo da panico sarebbe basata sull'esistenza dei sintomi, peccato che i sintomi siano proprio l'oggetto in cerca di diagnosi, per cui il procedimento suona come una tautologia
  • si viene a creare una categoria diagnostica, il disturbo da panico, a carattere monotetico, tornando indietro di almeno trent'anni nella storia della psicopatologia
Davvero sarebbe un male dei nostri tempi, nel senso che i "tempi" rischiano di contribuire al carattere "maligno" del fenomeno facendolo diventare una "malattia" alla quale ci si potrebbe solo rassegnare: basta digitare sul web attacchi di panico e leggere le centinaia di commenti a blog e siti di psicologia lasciati da persone - ex pazienti spazientiti - convinte di doversi portare per tutta la vita queste manifestazioni, visto il fallimento di qualsiasi terapia.

Eppure, proprio la fisiologia dell'attacco di panico sembra capace di "raccontarci" in che senso questo sia il male dei nostri tempi.

L'attacco di panico consiste nell'attivazione del nostro sistema di allarme, basato sulla preparazione alla lotta e/o alla fuga, per questo i sintomi coinvolgono il respiro e il battito cardiaco.

Come si attiva questo sistema d'allarme?



Il nostro cervello si "compone" di parti sviluppatesi in differenti periodi evolutivi.

Il "vecchio" cervello dei primi esseri umani - il paleoencefalo - funzionava essenzialmente attraverso reazioni emotive legate alla sopravvivenza o alla pro-creazione.

In epoche più recenti, si è formata la corteccia cerebrale, il cui compito è "gestire" gli stimoli ed elaborare le percezioni.

La nostra corteccia impiega la maggior parte dell'energia a "bloccare" tutta una serie di stimoli che, se seguiti individualmente, ci manderebbero in tilt: pensate a tutto ciò che vi circonda in questo momento in termini di stimoli sensoriali e riflettete su quale "minima" parte è focalizzata la vostra attenzione.

Tutto il resto viene necessariamente "ovattato" dalla corteccia per consentirci di conservare il controllo.

Ma questo lavoro della corteccia interferisce anche con le emozioni per cui solo alcune di esse saranno elaborate - o vissute - mentre altre saranno "gestite", come si dice oggi, ossia messe a tacere, per evitare possibili danni.

Ciò ha ridotto moltissimo l'attività del paleoencefalo, poiché la corteccia non consente agli stimoli di arrivare "direttamente" ad esso ma li lascia passare solo dopo averli "smorzati" della loro carica.

Aver ridotto l'attività però non vuol dire essere morto.

L'attivazione del paleoencefalo infatti è l'unico modo di salvarci buttandoci di lato quando un auto rischia di investirci, quando perdiamo l'equilibrio per un dissesto nel terreno, quando cioè lo stimolo è troppo rapido e improvviso perché la corteccia riesca a "bloccarlo e smorzarlo".

Dunque, se durante l'attacco di panico il sistema di allarme si attiva vuol dire che uno stimolo veloce e subitaneo è arrivato al paleoencefalo evitando la corteccia.

Come quando qualcuno alle spalle ci chiama all'improvviso e noi "saltiamo" per lo spavento.

Domanda: perché dopo essere saltati per lo spavento ci calmiamo vedendo colui che ci ha chiamati, mentre per l'attacco di panico non riusciamo a calmarci, anzi, sembra aumentare?

La risposta è semplice e inquietante.
  • nel caso della persona che ci chiama, il paleoencefalo ci fa saltare, la corteccia elabora l'immagine della persona che ci ha chiamati e noi vedendola ci calmiamo
  • nell'attacco di panico il paleoencefalo ci mette in allarme ma la corteccia, esaminando l'ambiente, non trova nessun dato che spieghi l'attivazione dell'allarme
Quando la corteccia non trova dati e non riesce quindi a elaborare una risposta razionale, "giustamente" il nostro sistema va in tilt generando il panico.

Ma può tutto questo essere definito sbrigativamente malattia?

Questo problema viene affrontato con una visione di parte: poiché la corteccia non trova dati allora vuol dire che il paleoencefalo fa i capricci e noi possiamo solo inibirlo.

Come quando un bambino ha paura dell'altezza e le rassicurazioni verbali dei genitori non riescono a calmarlo.

I genitori penseranno forse che è malato?

Voglio sperare di no!

La verità è che il bambino ha bisogno, attraverso l'esperienza, di imparare a far convivere e collaborare l'emotività e la razionalità.

L'esempio però è facile: ho scelto un bambino, mentre gli attacchi di panico sono "problematici" perché vengono agli adulti.

Ma siamo sicuri che per essere adulti basti aver superato una certa età?

E se ci fossero adulti che "in parte" hanno ancora bisogno di una certa quantità di esperienza per raggiungere una maturazione adatta a farli sentire capaci di camminare da soli?

Tra quello che accade nel cervello, in merito agli attacchi di panico, e quello che accade in società c'è un forte parallelismo:
  • nel cervello, il paleoencefalo attiva l'allarme, la corteccia non trova dati e cerca di inibirlo ma esso, sotto pressione, reagisce aumentando l'allarme il che spinge la corteccia ad aumentare l'inibizione e così via in un circolo vizioso
  • nella società, alcune persone hanno difficoltà a far lavorare insieme emotività e razionalità ma poiché sono adulte la società gli dice che non hanno motivo di allarmarsi il che le fa sentire incomprese e quasi rifiutate, andando ancor più in allarme, cosa che convince la società a definire il tutto una malattia
La corteccia e la società impongono la propria realtà, ossia la propria teoria su come dovrebbero funzionare le cose.

La civiltà della concretezza e dell'efficienza non può permettersi di pensare all'esistenza di una paura che non bussa alla porta, non chiede il permesso e affonda le sue radici proprio in ciò che la stessa civiltà sta mettendo a tacere, ossia il dubbio di non essere perfetta.

La mente è creatrice della paura; e quando essa analizza la paura, cercandone le cause per esserne libera, la mente non fa che isolarsi ulteriormente, accrescendo così la paura. (J. Krishnamurti)

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