La depressione è catalogata nel DSM tra i disturbi dell'umore e si caratterizza soprattutto per due sintomi:
- umore depresso
- perdita di interesse o piacere
Mi limito a queste poche parole e al link informativo poiché esistono in commercio e online tantissime pubblicazioni in merito con approfondimenti.
Mi interessa invece confrontare i tre modi in cui si "guarda" alla depressione da tre punti di vista:
- biologico
- psicologico
- sociologico
Il modo in cui si parla comunemente della depressione, infatti, sembra determinato da questi tre contesti, per cui:
- chi guarda alla depressione come un fenomeno biologico la considererà alla stregua di una qualsiasi malattia e incoraggerà l'uso di farmaci
- chi guarda alla depressione da un punto di vista psicologico la vedrà come conseguenza di bassa autostima, poca consapevolezza emotiva e credenze errate e si concentrerà su come la persona depressa vede la vita
- chi guarda alla depressione in una cornice sociologica ne farà una questione di capacità di adattamento personale e di vincoli e risorse offerte dall'ambiente circostante
Ma chi teme di sentirsi depresso o chi ha ricevuto una diagnosi di depressione vuole sapere chi ha ragione, senza troppe chiacchiere perché da questa ragione dipenderanno le possibilità di risolvere il problema.
Per quanto riguarda i farmaci, ne esistono ormai diversi la cui efficienza può sembrare "magica" ma, non potendo cambiare aspetti della personalità e atteggiamenti mentali, non offrono una risoluzione definitiva: la risoluzione è definitiva quando la persona continua a stare bene anche senza il farmaco.
L'approccio psicologico puro localizza il problema nella personalità e aiuta a vedere la depressione come il risultato di vissuti, quindi come qualcosa di modificabile e tuttavia si corre il rischio di responsabilizzare troppo la persona, già indebolita - tutti gli psicoterapeuti sanno bene come i pazienti attraversino, prima della risoluzione, una fase di estrema vulnerabilità - e di farla concentrare in modo eccessivo su sé stessa.
La sociologia ci è utile, come vedremo, perché inquadra il problema in una prospettiva più ampia rendendolo accettabile ma le cause - sociali e culturali - che essa indica sono pressoché incontrollabili, così l'unica soluzione sembra la capacità di adattarsi e chi in apparenza non ce l'ha finisce per sentirsi escluso e biasimato.
Quindi, nessun approccio è privo di errori.
Il punto di partenza di una discussione seria, basata sul futuro e sulla soluzione è:
non c'è nessuna persona desiderosa di vivere l'impoverimento, l'inadeguatezza e la scarsità di orizzonti che caratterizzano l'esperienza della depressione.
Il medico, lo psicologo e il sociologo tengano sempre presente che il "paziente" già sopporta e non bisogna abusare della sua "pazienza" identificandolo magari come un organismo geneticamente predisposto (lo sfortunato), una persona che non sa vivere i suoi sentimenti (l'emotivo) o che non sa darsi da fare in questo mondo (il debole).
Anche i pazienti hanno diritto di essere informati sulle diverse "lenti" con le quali i professionisti dell'aiuto guarderanno al suo problema.
Le informazioni consentiranno una scelta anche da parte dello stesso paziente.
Non dimentichiamo, infatti, che una comunità ha il dovere di prendersi cura dei suoi membri anche perché è interessata a ridurre gli oneri che il disagio dei singoli produce sulla stessa comunità.
La depressione:
- provoca amarezza, afflizione e abbassa il pregio dell'esistenza del singolo
- apre le porte a disturbi e malattie gravando sul sistema sanitario e instillando l'abitudine ad affidarsi al medico senza assumersi responsabilità personali
- genera conflitti per la difficoltà di stare insieme a chi vive nell'abbattimento incrinando rapporti di coppia, famiglie e amicizie
- determina perdite economiche dirette, con le spese per le cure, e indirette, diminuendo il rendimento dei lavoratori o addirittura inducendoli ad abbandonare le loro mansioni
Personalmente ho notato come negli ultimi dieci anni la "serietà" con la quale si affrontano le discussioni sulla depressione attraverso i media è diminuita notevolmente.
Per esempio, molti telegiornali usano la depressione come possibile causa di eccidi familiari o episodi turpi, concludendo i servizi con la frase "soffriva di depressione".
Ma che vuol dire "soffrire di depressione"?
Vuol dire etichettare come malate le persone.
Pensare che siano malate ci spaventa meno del pensare che possano aver provato sentimenti così distruttivi, toglie ogni responsabilità alla persona perché può capitare a tutti - quasi fosse un virus - e rende il ricorso alla pillola - e al portafogli - abituale.
La depressione non è un cuore che funziona male, un arto mancante o la mancanza di insulina.
Durante episodi e periodi depressivi è possibile rilevare degli scompensi metabolici nel cervello, ma questo non fa della depressione una malattia e nessuno finora ha dimostrato qualcosa di più di una correlazione.
L'idea dei fautori di un approccio biologico si basa sull'efficacia dei farmaci: se il farmaco fa migliorare la persona allora essa aveva lo scompenso.
Poiché gli stessi farmaci "migliorano" l'umore a chiunque li prenda, o non c'è nessuno scompenso o siamo tutti depressi (e io conosco personalmente psichiatri che credono giusto, nella vita, ogni tanto, ricorrere ad "aiuti esterni", così li chiamano!).
Non c'è nessuna verità definitiva sul rapporto tra cambiamenti personali e cambiamenti nei neurotrasmettitori e su chi dei due influenzi l'altro.
Viceversa, nel mondo della psicologia c'è una strana reticenza a "parlare" del problema in termini diretti, quasi nel timore che il parlarne possa suggestionare le persone e incrementare il pericolo-depressione.
Se il mondo della biologia si appiattisce sul concetto di malattia, in ambito psicologico c'è una vera Babele di spiegazioni e approcci terapeutici.
Nella psicoanalisi si fa risalire la depressione a episodi infantili, a esperienze traumatiche e a pensieri "illeciti".
Nella psicologia cognitivista il terapeuta va alla ricerca dei pensieri dannosi, delle credenze errate, cercando di ordinare il "database" della mente in modo da produrre circoli virtuosi.
Nel comportamentismo si suppone che le punizioni abbiano indotto la persona a comportarsi sempre in modo da arrivare allo stesso risultato punitivo facendogli addirittura accettare l'impotenza personale come unica modalità di vita.
Nella psicologia umanistica tutto ciò che ostacola la natura profonda della persona e la sua tendenza alla crescita non può che generare malessere e scoraggiamento.
Ma è vero che si è più depressi oggi che in passato?
Ogni epoca ha le sue croci e ogni epoca crede di avere qualcosa di particolare rispetto al passato.
Di certo, alcuni fattori sociali coinvolti nel fenomeno della depressione sono tipici del nostro momento storico.
- Dobbiamo adattarci a un mondo in cui cambiare lavoro - ossia cambiare una delle dimensioni con le quali diamo senso alla nostra vita - diventa sempre più frequente se non necessario.
- Dobbiamo aspettarci difficoltà economiche future perché da ogni parte ci dicono che il nostro sistema del welfare è destinato ad andare in crisi profonda.
- Dobbiamo essere più elastici nei rapporti familiari e pensare di poter avere diversi partner nel corso della vita, con rispettivi figli, separazioni e beghe legali.
- Dobbiamo preoccuparci sin da bambini di scegliere in cosa diventare bravi, dobbiamo sin da bambini sapercela cavare in caso di incendio, terremoto o nube tossica, dobbiamo sin da ragazzi sapere quali malattie si possono trasmettere via aria, saliva o sangue, dobbiamo evitare gli "orchi" anche via telefono o internet.
- Dobbiamo infine essere responsabili della nostra individualità e sapercela cavare da soli, costruirci le condizioni di perfetta autosufficienza e indipendenza emotivo-affettiva.
A giudicare dalla complessità con cui gli stessi approcci - biologico, psicologico e sociologico - guardano alla depressione, immagino che al paziente possano venire le vertigini.
La capacità delle persone di non arrendersi e cercare l'uscita, in questa "giungla" delle professioni d'aiuto, è davvero la dimostrazione migliore di una forza che aspetta solo di venir fuori.
Come insegna Alfred Polgar:
la difficoltà stessa di vivere può diventare davvero l'unica cosa che tiene in vita alcuni individui.
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