La diagnosi psichiatrica è un'operazione temuta quanto attesa da chiunque decida di rivolgersi a professionisti della relazione d'aiuto.
Il tema è delicato anche per la permanente confusione dei cittadini circa i ruoli di questi professionisti.
Spesso i termini psicologo, psicoterapeuta, psichiatra, da un lato e psicologia, psicoanalisi, psicoterapia dall'altro vengono usati nel linguaggio comune quasi come fossero sinonimi.
Inoltre, sembra ancora dura a morire, nel senso comune, la falsa logica in base alla quale "se ti rivolgi a uno di questi professionisti allora sei matto" e i primi a subire il nefasto influsso di questa falsa credenza sono proprio coloro che attraversano un momento difficile e si chiedono se fare il grande passo di rivolgersi a una persona qualificata.
Chiariamo dunque che la diagnosi psichiatrica può farla soltanto lo pischiatra, cioè un medico mentre le altre figure menzionate non hanno le competenze necessarie, anche se grazie all'esperienza alcuni psicologi e psicoterapeuti non medici sono più bravi degli psichiatri nel formulare diagnosi.
Mi interessa trattare alcune questioni di metodo circa il fare diagnosi, questioni che affondano nell'epistemologia della scienza psichiatrica e della psicologia in genere.
Tutti i professionisti conoscono e fanno uso di due strumenti costantemente sottoposti ad aggiornamento:
- l'ICD, la Classificazione Internazionale dei Disturbi, pubblicato dall'Organizzazione Mondiale della Sanità
- Il DSM, il Manuale Statistico-Diagnostico dell'American Psychiatric Association
Questi strumenti supportano il professionista nella difficile operazione diagnostica grazie a un'ampia casistica e a una serie di quadri descrittivi che orientano la diagnosi.
Gli stessi professionisti sono o dovrebbero essere consapevoli anche dei limiti di tali strumenti, limiti intrinseci alla stessa idea di costruire delle "bibbie" diagnostiche.
Quali sono questi limiti?
E quali scenari prefigurano?
Come dovrebbe essere una diagnosi?
Se a una diagnosi segue un trattamento efficace non avremo dubbi circa la fondatezza di quella diagnosi.
In pratica, una diagnosi è fondata se corrisponde davvero al problema diagnosticato ma questa corrispondenza si potrà verificare solo in caso di una soluzione parziale o totale del problema e non altrimenti.
Quindi, un buon medico è colui che ha formulato in prevalenza diagnosi fondate.
Ecco perché la pratica medica e psichiatrica continua a funzionare molto con il passaparola.
Una diagnosi credibile?
Più è alto il numero di professionisti concordi sull'associare certi disturbi a certe diagnosi più la diagnosi sarà credibile.
La credibilità viene messa in crisi da quei disturbi caratterizzati da un gran numero di sintomi, su alcuni dei quali potrebbe crescere il disaccordo.
Inoltre, potrebbe capitare e capita che una diagnosi ritenuta poco credibile si riveli valida: è il caso di molte delle cosiddette cure alternative, ritenute poco affidabili dalla medicina ufficiale ma che funzionano molto bene per alcuni pazienti.
Insomma, credibile o meno, basta che funzioni.
Una diagnosi categoriale?
Le due "bibbie" sopracitate si differenziano proprio da questo punto di vista: l'ICD in realtà si compone di due versioni, una più categorica, con criteri diagnostici rigidi per consentire al professionista di formulare diagnosi con confini definiti, e una per ricercatori, dai contorni più sfumati, che testimonia la "complessità" della formulazione di un quadro clinico, nella quale le diagnosi non "etichettano" i pazienti, rischio che l'OMS non vuole correre; invece i quadri diagnostici del DSM sono molto più stabili - gli americani, si sa, badano all'utilità pratica - ma proprio per questo rischiano di "categorizzare" separando nettamente il presunto stato patologico dalla "normalità".
Una diagnosi politetica?
Politetico vuol dire "che contempla più criteri" e si contrappone a monotetico, ossia "basato su un unico criterio".
Per formulare le diagnosi, sia il DSM che l'ICD richiedono la soddisfazione di diversi criteri: non bastano due o tre sintomi ma ne sono necessari molti e devono permanere da un certo tempo.
Ma non è solo questione di quantità: il sistema politetico fa sì che due persone possano ricevere la stessa diagnosi pur presentando in parte sintomi diversi.
In questo modo, il clinico può contare su una certa elasticità del sistema e integrarlo ricorrendo anche al "suo" giudizio personale.
Ma il difetto degli elastici è che si possono allentare: così per anni è stato possibile a persone diverse appartenere alla stessa categoria diagnostica senza condividere neanche un sintomo, difetto in parte risolto nelle nuove versioni dei manuali.
Il vero problema è che allargare così tanto le categorie può mettere in crisi la ragion d'essere di questi strumenti, ossia il guidare la diagnosi.
Ma la diagnosi in sé stessa, oltre che al professionista dell'aiuto, serve anche al paziente?
Ne Il codino del barone di Munchhausen (Feltrinelli, Milano, 1989) Paul Watzlawick racconta di un paziente il cui stato si aggrava sempre di più in seguito all'incapacità dei medici di diagnosticare il suo male, finché arriva un luminare e, dopo averlo guardato, esclama: moribundus!, termine che il paziente scambia per il nome della sua malattia e finalmente guarisce!
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