Che cosa succede nella nostra mente quando piangiamo per la morte di un personaggio al cinema o nelle pagine di un romanzo, ben sapendo che quell'evento non è reale?
Per non parlare del brivido che ci coglie nelle scene di suspense, quando il cattivo sta per agguantare la sua vittima, o della felicità che condividiamo con i trionfi dei protagonisti di storie, scritte, recitate o filmate.
Perché ci comportiamo verso quelle parole stampate, quei gesti finti e quelle ombre sullo schermo come con persone e avvenimenti esistenti?
Non è certo questione di realismo, visto che proviamo gli stessi sentimenti per i supereroi o per le storie di fantascienza così come per le mostruosità dell'horror, che di realistico non hanno nulla.
Accade qualcosa di molto strano: diventiamo totalmente passivi e ricettivi, mettendo a tacere il nostro sistema motorio.
E non accade solo a noi, ma lo stesso fenomeno avviene anche in coloro che quelle storie le hanno scritte, recitate o trasformate in pellicola.
Persino gli attori arrivano a provare sensazioni ed emozioni molto simili ai loro personaggi senza tuttavia portarle alle estreme conseguenze, come forse accadrebbe se quelle sensazioni ed emozioni fossero nate spontaneamente in loro.
Tutto questo è possibile perché nel nostro cervello, sia nella fase creativa della narrazione sia in quella ricettiva della fruizione delle storie, si rallenta la produzione e l'effetto di noradrenalina ed epinefrina, i neurotrasmettitori responsabili del controllo dell'attenzione e dell'azione, nonché delle risposte di attacco o fuga.
Grazie a questi neurotrasmettitori l'essere umano testa la realtà delle sue percezioni, pianificando ed eseguendo azioni atte a comprovare il grado di realtà di ciò che i suoi sensi percepiscono, compreso l'esame delle distanze dei corpi e dei suoni.
In pratica, è grazie alla noradrenalina e all'epinefrina che le persone hanno dei dubbi, cioè degli stimoli a pianificare e compiere azioni di controllo, anche solo mentali, come ad esempio raffrontare le immagini percepite con l'archivio contenuto nella nostra memoria.
Se però l'attività dei due neurotrasmettitori è ridotta a lumicino, nella persona che si sta godendo un'avvincente storia, il desiderio di testare la veridicità non nasce per niente, alcun dubbio emerge, ed ecco che ci troviamo a piangere, ridere, eccitarci, affannarci, saltare, restare a bocca aperta o voltarci dall'altra parte.
È quasi un luogo comune dire che un romanzo, una pièce teatrale o un film ci permettono di provare emozioni che diversamente forse non conosceremmo mai.
Partendo da questo concetto, qualcuno potrebbe pensare che la letteratura, il teatro e il cinema oggi sopperiscono a una mancanza di emozioni reali, visto che il grado di civiltà delle nostre società industrializzate per fortuna non ci espone più ai pericoli e alle tragedie dei secoli scorsi.
Riviverle attraverso la fruizione di storie è forse l'unico modo che ci resta.
Però questo ragionamento è fallace, perché l'uomo ha sempre prodotto storie, ha sempre costruito intrattenimenti teatrali e ha sempre cercato di illustrare la sua vita.
Se dunque l'essere umano, anche quando viveva pienamente situazioni nelle quali oggi non si potrebbe più trovare, non limitava la produzione di storie, quale può essere il motivo?
Probabilmente la spiegazione sta proprio nel funzionamento neurologico: le emozioni che ci arrivano dalle storie permettono al cervello di provare cicli di attività che evidentemente procurano piacere, desiderio, aspettative, ricompense intrinseche alla stessa attività cerebrale.
In pratica, il cervello ha molto bisogno di tenersi attivo e allenato, molto più di quanto gli eventi reali gli consentano, e forse per questo la nostra materia grigia ci induce da millenni a farci inventori di storie per potersi sentire essa stessa viva.
E noi la ringrazieremo sempre per questo.
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